28 giugno 2010

RAFANIELLO! ROSSO FUORI BIANCO DENTRO


Da http://www.militant-blog.org



Nei giorni scorsi abbiamo letto una piccola polemica, che in un certo senso potrebbe anche non interessarci: alcuni giovani del Pd hanno scritto una lettera a Bersani chiedendo di smettere di usare il termine “compagni”. Non ci sorprende, semmai ci sorprendiamo che qualcuno abbia ancora il coraggio di definire “compagni” i giovani del Pd. Riteniamo, però, che le loro parole siano un segno dei tempi: se c’è qualcosa di peggiore e più pericoloso del revisionismo di destra, è il revisionismo che si presenta come di “sinistra”.
Da coloro che si presentano come di “sinistra” nascono mostri: Pansa docet.

partito-democratico1dal blog dello storico Angelo D’Orsi

Abbiamo letto e ascoltato la notizia piccina piccina, ma di quelle che fanno discutere – come suol dirsi: cinque “giovani dirigenti” del Pd hanno indirizzato una perentoria richiesta al segretario del partito, Pier Luigi Bersani, esprimendo un forte “disagio”. Ohibò! E perché mai? Perché il partito non fa abbastanza sul serio l’opposizione al regime del Cavaliere? Perché ha avallato iniziative pericolose dell’avversario? Perché si piega troppo sovente ai dettami del Vaticano? Perché neppure in politica estera sa far sentire autorevolmente una voce diversa da quella dell’abbronzato e inerte Frattini? Macché. Il disagio di questi giovani – che un giorno, sta’ a vedere, diverranno leaders nazionali – nasce da “parole e comportamenti che guardano in maniera ingiustificatamente romantica al passato”.
E che vorrà dire? – si chiederanno i miei lettori. Difficile da decifrare, in effetti; ma se si va alla cronaca delle ultime ore si scopre l’arcano: nella riunione del partito tenuta a Roma il 20 giugno sui temi della risposta alla crisi economica, un attore, Fabrizio Gifuni, ha tenuto un (ahilui, applaudito) intervento esordendo con (ahilui doppio, applauditissimo) “compagne e compagni”. Non l’avesse mai fatto. Non solamente i giovanetti che dichiarano di avere l’età del Pd (sono da invidiare, per un verso, da compatire, per un altro), ma alcuni dirigenti dell’area cattolica, sono insorti. Che linguaggio datato! Che mancanza di rispetto per le diverse “sensibilità” presenti nel partito! Che inutile romanticismo! Che grottesca nostalgia di un passato che non può e non deve tornare! Nostalgia: è questa la parola che è stata usata, con una chiosa che si spinge fino ad adombrare l’ipotesi del fallimento: “nostalgia” – scrivono i giovani “democratici” – “che acceca la nostra prospettiva del partito e del paese”.
Insomma, siamo a questo. Chi faccia una capatina sul sito web de “l’Unità” potrà constatare come il dibattito sia scattato immediatamente. E scoprire che accanto a coloro ai quali la parola “compagno” fa venire una crisi di orticaria, molti altri sono venuti allo scoperto protestando, con argomenti storici, lessicali, etici, politici. Quanti bollano l’appellativo “compagno” (e derivati, femminile e plurale) come politicamente improponibile, sono i più recenti zelatori del “nuovo”.
Il nuovo che dovrebbe fare piazza pulita di tutto ciò che la memoria e la storia ci consegnano: dai simboli ai nomi, dalle tradizioni politiche a quelle culturali, dai testi di Marx a quelli di Gramsci. Che, infatti, si esitò a inserire nel “gotha” del Pd alla sua fondazione, e che, mentre è oggi l’autore italiano più studiato nel mondo, viene perlopiù ignorato non soltanto dai “giovani” ma dalla stessa leadership: come non ricordare Veltroni quando, festeggiando il cinquantenario della Fondazione Gramsci, nel 2000, ebbe a sentenziare: “Gramsci non ci appartiene più. Siamo oltre. Non siamo più a metà del guado!”?
Ecco, ora la traversata del deserto del fu-comunismo è finita. E mentre davvero nei paesi dell’Est europeo, devastati dal “nuovismo” dell’ultracapitalismo, emergono nostalgie di un mondo senza libertà, ma con molte garanzie sociali, qui da noi, non si è contenti della collezione di sconfitte politiche che dalla “Bolognina” in avanti il PCI, rinnegatore di se stesso, ha inanellato, privo di una linea e di una autentica leadership, oscillante ad ogni stormir di fronde, imitatore del partito di plastica berlusconiano.
Da noi, baldanzosamente, si vuole “andare avanti”: su quale strada? Non si sa. L’importante, a quanto pare, è “innovare”. E bruciare i vascelli alle proprie spalle, cancellando la storia di un movimento, quello comunista italiano, che non può essere chiamato a condividere, sic et simpliciter, i crimini di quello staliniano, come i suoi stessi attuali dirigenti, si sono precipitati a fare, inseguendo o addirittura precedendo l’avversario, ammettendo implicitamente e talora esplicitamente le proprie “colpe”. Assolute e irredimibili, nel loro giudizio; a meno che si cambiassero nomi, simboli, e, appunto, persino il lessico politico.
Ma se colpe ci sono state, allora, è grottesco pensare che cambiando la forma si cancelli la sostanza; e se non ci sono (soltanto) colpe, dunque, perché gettare alle ortiche una tradizione nobilissima? Perché disconoscere il ruolo fondamentale di lotta al fascismo, di costruzione della Repubblica – fin dalla sua carta costituzionale, i cui lavori furono presieduti da un comunista integerrimo e “duro” come Umberto Terracini –, di difesa della legalità e della democrazia contro le trame golpiste e gli attacchi terroristici? Contro i tentativi di forzature costituzionali, condotti a più riprese, per esempio, da quella DC di cui ora l’area cattolica nel Pd si proclama erede…
Non si può che provare sconforto davanti alle proteste dei giovani del Partito Democratico: i quali, a quanto pare, nulla sanno e nulla vogliono sapere di quel passato. Loro sono “post”. Noi che siamo “pre”, ci permettiamo di offrire un consiglio: studino. Si mettano sui libri. Cerchino i documenti. Vadano negli archivi. O almeno nelle biblioteche. Troveranno di che appagare le loro curiosità, se ne hanno, di che nutrire la loro ingenua ignoranza, di che colmare lacune di cui hanno solo in parte la responsabilità. E li invitiamo innanzi tutto a fare una pur sommaria ricerca sul termine incriminato: “compagno”.
La sua etimologia, i suoi tanti impieghi linguistici, la sua “romantica” bellezza: compagno vale assai più, semanticamente, di amico, su un certo piano; o di marito (o moglie), su un altro. Compagno è la persona con cui compartisci beni, materiali e spirituali. Compagno è colui (o colei) con cui dividi il pane; ma, aggiungo, pure le rose, spesso. Compagno è chi tu percepisci accanto anche quando è lontano e irraggiungibile. Compagno è chi è in stato di empatia con te: sente, soffre, gioisce degli stessi avvenimenti, pur se si trova a migliaia di chilometri di distanza dal luogo in cui tu sei. Compagno è alleato, amico, sodale: tuo concittadino, tuo familiare, tuo convivente: nelle idee, nei sentimenti, negli ideali; o nella pratica quotidiana. Compagni, prima ancora di dichiararsi, ci si avverte reciprocamente, ci si riconosce, come nell’innamoramento.
Se un altro percepisce nei tuoi stessi termini un’ingiustizia, commessa su altri, una situazione di disuguaglianza, di sfruttamento, di oppressione: ecco un compagno. Così era. Così sarà, finché v’è chi crederà nei valori – questi “sacri” davvero – della triade Liberté Egalité Fraternité. Per crederci non è necessario essere “comunisti”, come non lo erano i rivoluzionari del 1789. Se quei giovani contestatari non lo sentono, mi dispiace per loro. Non per questo noi rinunceremo a servirci di quella parola, che, evidentemente, a loro non si addice. E che essi non meritano.

Angelo d’Orsi

 
allora tu sì nù...Rafaniello,
Rosso fuori, bianco dentro

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